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Massimo Nuti, direttore generale del Gruppo Roberto Nuti Spa, conosciuto nel mondo per il prodotto a marchio Sabo, fa il punto sulla difficile situazione che sta attraversando l’Italia, che sta perdendo la spinta innovatrice degli imprenditori.

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Massimo Nuti, direttore generale del Gruppo Roberto Nuti Spa

L’Italia ha un debito pubblico enorme e un opulento apparato statale da alimentare ed è soprattutto per questo motivo che la pressione fiscale è alta, soprattutto se la mettiamo in relazione alla qualità e all’efficienza dei servizi. Tasse, burocrazia e costo del lavoro impediscono alle imprese italiane di competere in modo adeguato e di cogliere le opportunità di crescita, mettendo a dura prova persino la capacità di sopravvivenza di migliaia di aziende, soprattutto medie e piccole. Il grido di allarme, sempre più accorato, si leva da anni dai capannoni della piccola e media impresa e della grande industria. E’ urgente una riforma strutturale seria e profonda del sistema Paese, eppure i governi si succedono senza attuare i cambiamenti che pure la politica stessa riconosce necessari. Nel frattempo cresce la disoccupazione e sono sempre di più gli imprenditori che gettano la spugna, soprattutto quelli che lavorano nel mercato interno, che sono i più penalizzati da questi anni di crisi e di contrazione dei consumi.Va meglio alle aziende che esportano, come il Gruppo Roberto Nuti Spa, fondato oltre mezzo secolo fa e presente nei mercati di 80 Paesi con i ricambi a marchio Sabo: ammortizzatori, molle ad aria e sistemi sterzo per autocarri, rimorchi e bus di tutte le principali marche in circolazione, perfettamente intercambiabili con gli originali. Il Gruppo occupa un centinaio di addetti negli stabilimenti situati in Emilia Romagna e Toscana ed è socio da alcuni anni della Sabo-Hema Automotive, una joint-venture con il gruppo Hema Engineering, che ha sede a Gurgaon (nei pressi di New Delhi), ove produce ammortizzatori per veicoli industriali e autovetture destinati al mercato indiano che, come noto, è fra quelli in forte crescita. Non è una delocalizzazione, ma un investimento internazionale che ha consentito di fronteggiare la crisi globale cominciata nel 2008.

Non sarebbe possibile competere con il prodotto costruito in Italia?

“Assolutamente no – risponde deciso Massimo Nuti, direttore generale della Roberto Nuti Spa -. Con un carico fiscale e burocratico che drena gran parte delle risorse è impossibile mantenere una qualità degna della fama italiana senza ridurre i costi, quindi i prezzi”.

E cosa si dovrebbe fare?

“Semplificare, rendere più facile la vita alle imprese, introdurre maggiore flessibilità nel mercato del lavoro, ridurre il cuneo fiscale in modo drastico, a vantaggio sia del salario del lavoratore sia dell’impresa. Guardiamo cosa fanno gli altri. In tutto il mondo fiscalità e competitività sono inversamente proporzionali. Non c’è bisogno di tirare in ballo India e Cina per fare degli esempi, perché ci sono Stati molto più vicini a noi, con culture e società molto simili alla nostra, che ci fanno una concorrenza fortissima e, anzi, attraggono investimenti in fuga dall’Italia. La Serbia, ad esempio, gode di un notevole sviluppo grazie alla creazione di aree che ricordano i nostri vecchi distretti, in cui si coniugano efficienza, vantaggi fiscali e basso costo del lavoro”.

Già, ma giocano anche sui salari.

“E’ vero che in Turchia e Serbia i salari sono bassi, ma è altrettanto vero che anche il costo della vita è basso, così come è sostenibile la pressione fiscale sulle imprese. In ogni caso il salario non è che un aspetto: prendiamo ad esempio l’Austria o la Svizzera, dove i salari sono adeguati a una qualità della vita alta, anche più della nostra. Sono territori avvantaggiati anche da una diversa cultura del lavoro, rispetto all’Italia, che si traduce in un diffuso senso di responsabilità, a tutti i livelli, e poco assenteismo, anche grazie a speciali accordi fra le parti sociali. In Carinzia o nel cantone Vallese le tasse ridotte e un’amministrazione pubblica molto efficiente e orientata a serie politiche di marketing territoriale attraggono le imprese da oltre confine”.

Invece in Italia, una volta fatturato 100, quanto resta?

“Ci viene detto che la pressione fiscale sulle imprese è del 55% ma in realtà, come alcune associazioni di impresa hanno più volte rivelato, siamo abbondantemente sopra al 65%. A questo già notevole fardello che abbiamo sulle spalle si aggiunge un percorso a ostacoli, fatto di regole complesse, burocrazia e quindi costi di gestione. Per non parlare dei tempi della Giustizia. Se devi rincorrere un pagamento insoluto devi mettere in conto anche 4 anni di iter legale e relativi oneri. Parliamo di una fetta enorme di ricavi che vengono a mancare e ciò significa astenersi dagli investimenti, soprattutto per i moltissimi che non hanno più accesso al credito. Senza investimenti un’azienda muore. Per questo l’imprenditore italiano ha perduto l’entusiasmo e rinuncia a lottare per far crescere la propria azienda. E’ così che il Paese perde la sua migliore tradizione industriale e arretra, perdendo posizioni e posti di lavoro e prospettive”.

Non ci resta che piangere?

“Siamo italiani e abbiamo dimostrato con la nostra storia e la nostra cultura di avere capacità e stile unici al mondo. Dunque non dobbiamo arrenderci e ricominciare a studiare senza dare nulla per scontato, senza sederci sugli allori di ciò che significa nel mondo il Made in Italy. Abbiamo delle eccellenze su cui far leva per risollevarci: il turismo, l’enogastronomia e la meccanica, specialmente nel settore Automotive. Possiamo ambire a una rinascita, ma occorre l’impegno di tutti per superare definitivamente le ideologie e le visioni obsolete del mondo del lavoro che, purtroppo, sono ancora molto diffuse in ampi settori della politica e della società. Eppure questa crisi ci deve indurre a cambiare e dialogare in modo costruttivo e leale, lasciando da parte gli interessi di parte e la ricerca del facile consenso. Dobbiamo essere concreti e smetterla con le strumentalizzazioni, se vogliamo aiutare le nuove generazioni a sopravvivere in un mercato  globale che sarà sempre più competitivo. Se saremo in grado di cambiare con coraggio, potremo guardare al futuro con fiducia”.

Massimo Calvi